E’ raro che un uomo possa adattarsi - come dire? - alla sua condizione di uomo.
Per uno strano caso del destino, nelle settimane precedenti alla quarantena, ho sentito l’urgenza di acquistare una serie di libri, messi in lista da tempo, quasi avessi il sentore dello scenario a cui il mondo sarebbe andato incontro. In verità non avrei mai immaginato di ritrovarmi, mentre scrivo, ad acquistarne degli altri furtivamente, ai limiti del contrabbando, presso una libreria on-line che me li spedisce a casa. Eppure così è stato.
Stai attento, con le citazioni puoi mandare al diavolo qualsiasi cosa, mi avverte perentorio Malraux, ed è proprio sulla scorta del suo consiglio che mi accingo a mettere nero su bianco le mie riflessioni dopo il primo mese di quarantena da coronavirus.
Trascorsa abbondantemente la prima fase d’incomprensione del fenomeno, di reazioni esagitate, gesti estremi e sfoghi personali, di metabolizzazione del nuovo, la situazione non è molto cambiata, si vive ancora nella confusione, nel disorientamento, nell’incertezza del domani, nel caos. Un caos che ha assunto dei connotati differenti però, un caos silente.
Non conta la situazione in cui ti trovi, ma come reagisci, recita un antico proverbio norvegese, sembra quasi che tutti noi, o perlomeno molti di noi, desiderino ritornare a una dimensione più vera, più autentica, per ritrovare la tranquillità. Una piccola e serena alternativa alla frenesia. Chiudere fuori il mondo però non significa voler ignorare quanto ci circonda, ma l’esatto contrario: volerlo vedere con maggiore chiarezza, mantenere una direzione e cercare di amare la vita. Ma Il nostro tempo è il tempo del rumore, e già nel Seicento Blaise Pascal aveva capito che tutta l'infelicità degli uomini proviene dal non saper restare tranquilli in una camera.
Questa irrequietezza, come condizione connaturata all’uomo fin dalla notte dei tempi, si traduce nel rifiuto della solitudine, della noia, dell’introspezione, nella continua ricerca di qualcosa di nuovo che proietti l’attenzione altrove e la distolga da se.
Allora le infinite possibilità offerte dalle serie televisive, dagli smartphones, dalle apps, dai social networks, non rappresentano forse una risposta ai nostri bisogni piuttosto che esserne la causa?
Non sarebbe un bene, allora, se gli uomini si annoiassero un po’? Se evitassero di stare costantemente connessi, se si fermassero e s’interrogassero su cosa stanno effettivamente facendo? Probabilmente, come afferma David Foster Wallace ne Il re pallido, superare questa noia atavica sarà come passare dal bianco e nero al colore. Come l’acqua dopo giorni nel deserto.
Una soluzione un po’ anacronistica ma possibile per convivere con l’isolamento ci è data da Xavier de Maistre nel 1794 col suo Viaggio intorno alla mia camera. In 42 capitoli, quanti sono i giorni di confinamento, l'autore percorre in lungo e in largo e in diagonale, zigzagando e facendo spesso camminare sulle gambe posteriori la poltrona da cui non ama scollarsi, i 36 passi di lato della sua stanza quadrata, commentando mobili e oggetti e richiamando vecchi ricordi. Ogni oggetto che l'autore ci presenta è occasione di divagazioni e di aneddoti, di osservazioni filosofiche basate su una morale corrente, benevola, generosa e arguta. Quando descrive le stampe e i quadri della sua stanza presenta per ultimo, come pezzo forte della collezione, il quadro più apprezzato dagli ospiti, soprattutto dalle dame, uno specchio. Infatti, sempre imparziale e vero, rimanda agli occhi dello spettatore le rose della giovinezza e le rughe dell'età matura, senza calunniare né lusingare nessuno. L'opera di De Maistre nasce da un'intuizione profonda e suggestiva: che il piacere del viaggio dipenda forse più dall'atteggiamento mentale con cui partiamo che non dalla destinazione scelta. Se solo riuscissimo a vivere il nostro ambiente quotidiano con lo spirito del viaggiatore, dunque, potremmo scoprire che esso non è affatto meno interessante degli alti passi montani e delle giungle popolate di farfalle del Sudamerica di Humboldt.
E’ paradossale come un virus, un agglomerato invisibile di legami chimici, abbia sovvertito l’ordine di giudizio sulle cose.
Fenomeni come l’Hikikomori, di ragazzi chiusi in casa collegati con l’esterno solo in modo virtuale, diventa ora la richiesta di normalità. L’allarme dà ragione all’ipocondriaco, la sua perenne preoccupazione ora una motivazione ce l’ha. L’emergenza sanitaria rimescola i rapporti tra le generazioni. I figli si preoccupano, come se si fossero improvvisamente accorti che i genitori non sono perenni, i bambini non si staccano più da papà e mamma, i giovani adulti sono ritornati nella loro cameretta da adolescenti. Le coppie scoppiano o finalmente si accoppiano, nessuno è abituato a stare insieme notte e giorno. E nella solitudine del singolo, che esplode in attacchi di panico, si riflette l’angoscia collettiva.
Freud distingue tra la paura (Furcht) che “richiede un oggetto di cui si ha timore” e l’angoscia (Angst) che “indica una certa situazione che può essere definita in attesa del pericolo e di preparazione allo stesso, che può anche essere sconosciuto”. Qual è il nucleo, il significato della situazione di pericolo? Chiaramente la valutazione delle nostre forze rapportate all'entità del pericolo, l'ammissione della nostra impotenza di fronte ad esso: impotenza materiale quando si tratta di un pericolo reale, impotenza psichica quando si tratta di un pericolo pulsionale. Localizzare il nemico è il modo paranoico per arginare l’angoscia. La paura, lo sappiamo, è il sentimento che sorge dalla localizzazione determinata del pericolo. Per questo già la guerra contro il terrorismo appariva come una guerra anomala: i terroristi agiscono senza tener conto dei confini, non sono facilmente localizzabili, non hanno un’identità certa, possono essere ovunque.
Il terrore del contagio allora introduce un ulteriore elemento di paradosso nel paradosso.
Il terrore diventa l’antitesi del legame poiché ci porta a vedere in chi abbiamo difronte un potenziale untore, ciò si traduce nella creazione di muri sociali di protezione fobica padre-figlio, nipote-nonna, amico-amico, marito-moglie, alunno-professore, cliente-negoziante, che ha come prodotto ultimo il distanziamento sociale.
Uno scenario da comic della Marvel, dove Rogue degli X-Men scopre il potere di assorbire l'energia vitale con un solo tocco e traumatizzata dall'esperienza comincia ad indossare guanti e vestiti che limitassero il contatto, anche accidentale, con qualcuno.
Dobbiamo stare molto attenti allora che l’allontanamento sociale e l’autoisolamento non ci portino all’allontanamento emotivo, a vedere l’altro come una minaccia o un nemico. Distanza sociale si quindi, ma mantenendo una connessione emotiva.
In questa costrizione non dobbiamo vedere un attentato alla nostra libertà, ma la cifra più propria della libertà umana in quanto tale che trova solo nella fratellanza con lo sconosciuto la sua cifra più alta. Questo virus ci insegna infatti l’insopprimibilità della relazione proprio in quanto ce ne priva; ci insegna la solidarietà isolandoci, mostrandoci che nessuno può salvarsi da solo.
Bisogna imparare a fare qualcosa col buio, usava dire Basaglia. Se c’è della luce in questo buio essa dimora in questa solidarietà introversa a cui siamo esposti, una solidarietà non retorica, non esibita, non euforica ma necessariamente solitaria e silenziosa; l’occasione straordinaria di fare parte di una comunità di solitudini.
A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.
Un altro spunto di riflessione per questi lunghi giorni di clausura è cercare di capire come ha agito e agisce questo virus.
In relazione a ciò si è espresso il divulgatore scientifico David Quammen, che nel suo testo ormai celebre Spillover del 2014, aveva previsto una futura grande pandemia “the Next Big One” causata da un virus zoonotico trasmesso da un animale selvatico, verosimilmente un pipistrello, che sarebbe venuto a contatto con l’uomo attraverso un «wet market» della Cina meridionale. Suona familiare?
Spillover è il termine che indica quel momento in cui un virus passa dal suo ospite animale al primo ospite umano, il paziente zero. Le malattie infettive che seguono questo processo si chiamano zoonosi. A quel punto si scatena un’epidemia che uccide migliaia di persone, medici e scienziati rispondono alla minaccia e finalmente rallentano l’epidemia che poi sparisce.
Dove va a finire il virus? Se ne va? No, è ancora nell’ospite.
L’epidemia scompare e poi passano diversi anni prima che si ripeta. Dicono che quando un proiettile ti colpisce non senti mai il colpo, perché il proiettile arriva prima e poi il suono arriva dopo. Questo virus funziona così.
Quale è allora il miglior modo per convivere con questo subdolo nemico nell’attesa che riduca la sua capacità offensiva?
Noi, come consumatori di notizie, dovremmo resistere alla cosiddetta Fomo (Fear of missing out), paura di perdersi qualcosa, all’ossessione di sapere quale sia l’ultimo dato, l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora. Dovremmo si seguire l’informazione sul virus, prestare attenzione al problema ma abbiamo bisogno anche di altre cose. Abbiamo bisogno di una copertura sul coronavirus che approfondisca le cause e gli effetti, ma anche di storie che non riguardino il coronavirus. Abbiamo bisogno di musica, di comicità, di arte, di libri. Non si tratta fatalmente di un evento che ci è capitato in sorte. Secondo Quammen è verosimile che quando noi umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e scateniamo nuovi virus. Se a questo si aggiungono 7,7 miliardi di esseri umani sul pianeta che si spostano in ogni direzione, trasportano cibo e altri materiali, le conclusioni diventano sempre più credibili.
Hello darkness, my old friend
Ciao oscurità, mia vecchia amica
I've come to talk with you again
Sono tornato a parlare con te
Because a vision softly creeping
Perché una visione sta dolcemente strisciando
Left its seeds while I was sleeping
Ha depositato i suoi semi mentre stavo dormendo
And the vision that was planted in my brain
E la visione che è stata piantata nel mio cervello
Still remains
Ancora rimane
Within the sound of silence
Dentro il suono del silenzio
Le note di The Sound of Silence mi risuonano in testa e allora in questo caos così intimo, mi chiedo, che la via da seguire sia proprio quella dettata dalla voce del proprio silenzio?
Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L'animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca. Con queste parole un piccolo uomo dai piccoli baffi, amava definirlo. Quest’uomo si chiamava Charles Spencer Chaplin, Charlie per il mondo, e col silenzio dei suoi film il mondo lo cambiò per sempre. Ma ascoltare il proprio silenzio potrebbe sembrare a qualcuno un atto solitario, sociofobico, da eremita che rifugge dagli altri per timore del confronto o per disagio, per disadattamento insomma. Invece no, perché la solitudine in realtà non esiste, nel senso che la solitudine non consiste nello stare soli ma piuttosto nel non sapersi tenere compagnia. Chi non sa tenersi compagnia difficilmente la sa tenere ad altri. Ecco perché si può stare soli in mezzo a mille persone, ecco anche perché ci si può trovare in compagnia di se stessi ed essere felici. La solitudine pùo portare a forme straordinarie di libertà. Perché è vero che facciamo tutti parte dello stesso pianeta ma dovremmo conservare in ogni momento la coscienza della potenziale ricchezza di essere un’isola.
A ogni male ci sono due rimedi: il tempo e il silenzio. Se così è, oggi ne abbiamo in abbondanza di entrambi.
E’ tarda notte, quasi l’alba ormai, una delle tante di questo isolamento, tutte uguali e tutte diverse, le palpebre si chiudono e la stanchezza si fa avanti mentre ascolto Enjoy The Silence dei Depeche Mode:
All I ever wanted
Tuttò ciò che voglio
All I ever needed
tutto ciò di cui ho bisogno
Is here in my arms
è qui tra le mie braccia
Le esperienze sono importanti, condividerle si, ma le parole possono anche allontanarcene. Quindi adesso rimarrò in silenzio e lascerò che esso separi la verità dalla menzogna.
1. André-Georges Malraux, La Condition humaine, Paris, Gallimard. 1933
2. Erling Kagge, Il silenzio, uno spazio dell’anima, Torino, Einaudi. 2017
3. Blaise Pascal, Pensieri, Guillaume Desprez, 1669-70, trad. di R. Sanesi, Torino, Einaudi. 1992
4. David Foster Wallace, Il re pallido, Torino, Einaudi. 2011
5. Xavier de Maistre, Voyage autour de ma chambre, Dufart. 1794
6. Alain de Botton, L'arte di viaggiare, Guanda, p.242. 2002
7. Nicole Janigro, Rallentare stanca, Doppiozero. 2020
8. Sigmund Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, Opere, vol. X, p. 311. 1925
9. Chris Claremont, Michael Golden, Rogue, Agosto, Marvel comics. 1981
10. Massimo Recalcati, Una comunità di solitudini, Doppiozero. 2020
11. Mariangela Gualtieri, Nove marzo duemilaventi. 2020
12. David Quammen, Spillover, Adelphi. 2014
13. Stella Levantesi, Intevista a David Quammen, Il Manifesto. 2020
14. Simon & Garfunkel, The Sound of Silence, Wednesday Morning, 3 AM, Columbia Records. 1964
15. Charlie Chaplin, My Trip Abroad, New York. 1922
16. Fabrizio De Andrè, Sotto le ciglia chissà, Mondadori. 2016
17. Alexandre Dumas. 1802-1870
18. Depeche Mode, Enjoy The Silence. 1990
19. Jalāl ad-Dīn Moḥammad Rūmī, Mathnawi. Il poema del misticismo universale, Bompiani. 2006
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