Essere stati è una condizione per essere[1].
Così Fernand Braudel tratteggiava uno degli aspetti peculiari di quell’universo antico e moderno chiamato Mediterraneo. Era il 2016 quando, su invito dell’associazione culturale MariTerra, decisi di fotografare la comunità marinara siciliana di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento. Il lavoro prese il nome di Radici nel Mare, dal titolo di una mia poesia scritta nel luglio dello stesso anno.
Ognuno ha il suo Porto.
É una casa senza porte ne finestre,
sa legarti per lasciarti andare perché
ha Radici nel Mare.
É rifugio e meta.
Ogni porto é come un grande e saggio uomo
dalle braccia sempre aperte.
Non guarda al colore della pelle ne ai vestiti indosso,
accoglie tutto e tutti
in silenzio.
I suoi occhi sono visibili a miglia,
la sua voce il canto di un gabbiano[2].
Radici nel Mare vuole infatti farsi testimonianza viva e contemporanea di tale radicamento, offrendo un percorso documentale tra fotografia e sguardo etnoantropologico sugli aspetti culturali che caratterizzano le comunità costiere. Le ragioni di Radici nel mare vanno dunque ricercate nel delicato quanto complesso rapporto tra le comunità e il mare, rapporto fatto di uomini e donne che con i loro saperi e i loro simboli trovano ancora una condizione per essere in un tempo dove, proprio dal Mediterraneo, emergono o si inabissano nuove speranze e dolorose memorie. Così scriveva, Antonino Frenda[3], nel testo del progetto.
Nel corso dei cinque anni da allora, ho conosciuto Antonino Cusumano prima come direttore e poi come amico, e su suo invito ho iniziato a contribuire dal 2019 ai contenuti di Dialoghi Mediterranei, questa illustre rivista della quale sono modesto collaboratore.
Nel 2020, anno memorabile per il dramma di un’umanità colpita dalla pandemia da Covid-19, di fiorente produttività intellettuale per il sottoscritto, ricevo in dono l’ultima fatica letteraria di Antonino Cusumano, l’opera Per fili e per segni[4]. Da non addetto ai lavori, la lettura di quest’ultima mi sorprende di vivo piacere; mai avrei immaginato che il mio lavoro di anni addietro potesse rientrare in un contesto poco rappresentato di studi antropologici.
Scrive Cusumano, – nello studio delle culture dei popoli non è stato sufficientemente analizzato il ruolo che la pesca ha esercitato ed esercita presso le comunità costiere nell’organizzazione delle forme sociali, nella strutturazione degli universi simbolici nonché nell’ordinamento delle norme e dei valori morali.
E’ singolare che l’Italia, una penisola bagnata su tre fronti dal mare, con una notevole quantità di insediamenti urbani lungo le coste, non abbia una storia doverosamente documentata di società marinare e del loro assetto economico, sociale e culturale.
Gli abitanti della costa si distinguono fra loro dal modo in cui si rapportano al mare; gli uni costruiscono le case proprio sulla riva, gli altri se ne tengono ben distaccati per non perdere la terra sotto i piedi; i primi hanno il mare sempre sotto gli occhi, i secondi gli voltano le spalle[5].
Quale è il rapporto delle comunità marinare col mare?
La Sicilia, isola nell’isola[6] come la definisce Luigi Pirandello, ne è l’emblema. Una terra circondata dal mare che non è soltanto topos fisico ma geografia delle culture, dei gesti e delle parole di comunità il cui tempo non è quello dell’uomo, ma è scandito dai cicli della pesca, declinato dalle correnti e dalle maree.
Questa terra è anche la terra del paradosso. Mille chilometri e più di costa eppure – scrive Leonardo Sciascia – nel suo modo di essere, nella sua vita, sembra tutta rivolta all’interno, aggrappata agli altipiani e alle montagne, intenta a sottrarsi al mare e ad escluderlo dietro un sipario di alture o di mura, per darsi l’illusione quanto più è possibile completa che il mare non esita, che la Sicilia non è un’isola [...]. Il mare è la perpetua insicurezza della Sicilia, l’infido destino; e perciò anche quando è intrinsecamente parte della sua realtà, vita e ricchezza quotidiana, il popolo raramente lo canta e lo assume in un proverbio, in un simbolo; e le rare volte sempre con un fondo di spavento più che di stupore[7].
In duemila pagine di Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano[8] Giuseppe Pitrè ne dedica al mare appena una decina. Sarà per la carenza di documenti folklorici o perché lo studioso sentisse più un’attrazione verso il mondo della Sicilia interna – secondo Sciascia – non lo sapremo mai; ciò che si sa invece è che Pitrè, figlio di marinai e nato in una città di mare, proprio al mare dedicò minori attenzioni.
Sembra che la larga parte dell’interesse storiografico sia stato rivolto al rapporto fra le comunità agricole e le città come misura dello sviluppo socio-economico del nostro Paese, lasciando al ruolo di comparsa l’apporto dato dai centri marinari in questo processo di trasformazione.
E’ proprio la stretta relazione col mare invece che dovrebbe risollevare queste comunità al ruolo di attori protagonisti. Una dimensione mobile fatta di incertezza, di risorse invisibili sottomarine, di tempi imprevedibili e variabili fuori da qualunque pianificazione o stagionalità, di domini flessibili ai saperi e alle abilità del mestiere di pescatore. In questa ineluttabile caducità risiede il prezioso lascito delle identità marinare, il loro inestinguibile fascino. Il mare è materia liquida.
[1] Fernand Braudel, Il Mediterraneo, Bompiani, Sellerio. 1991
[2] Nuccio Zicari, Radici nel Mare, poesia. 2016
[3] Antonino Frenda, Radici nel Mare - tradizioni e identità marinare, testo per mostra fotografica di Nuccio Zicari, Porto Empedocle. 2016
[4] Antonino Cusumano, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, Ed. Museo Pasqualino. 2020
[5] Matvejević P., Mediterraneo, Garzanti, p.25. 1991.
[6] Luigi Pirandello, Discorso su Giovanni Verga alla Reale Accademia d’Italia, fascicolo I, Edizioni del Sud. 1929
[7] Leonardo Sciascia, Rapporto sulle coste siciliane in La corda pazza, Adelphi. 1991
[8] Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Pedone Lauriel, 1888
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